1 –
EMILIO
Era
un pomeriggio freddo e nebbioso. Di tanto in tanto soffiava qualche
gelida folata di vento, che alzava per qualche istante la nebbia ma,
subito dopo, essa ripiombava cupa, fastidiosa e più opprimente che
mai. Quel freddo, umido e pungente, penetrava nelle ossa già
doloranti di Emilio, provocandogli fitte dolorose o spasmi
improvvisi, ma aveva imparato a conviverci, immerso in un mondo in
cui, la fisicità, non aveva più alcuna importanza. Da qualche
giorno, però, ci si era messa anche la febbre, che in maniera
intermittente scaldava e raffreddava il suo corpo. Alternava così ai
colpi di calore improvvisi attacchi di freddo, che gli provocavano
tremori in tutto il corpo e, tutto infagottato nei suoi stracci,
camminava ramingo e senza meta, guardando la gente, le vetrine o
parlando da solo. Di tanto in tanto si fermava a sgranocchiare
qualcosa o a sorseggiare un po’ di grappa, riscaldando un po’ lo
stomaco, freddo e contratto come tutto il resto del corpo, poi
proseguiva nuovamente, quasi fosse destinato al moto perpetuo.
Era
ancora un uomo piuttosto giovane, aveva 52 anni, ma sembrava avesse
attirato su di sé tutti i guai del mondo. Rughe e piaghe ricoprivano
gran parte del suo corpo e, a vederlo, sembrava avesse quindici anni
in più. In quei giorni, per giunta, quella febbre che andava e
veniva l’aveva ulteriormente debilitato, costringendolo a frequenti
soste in cui, in mancanza di una panchina, si abbandonava per terra,
appoggiando la schiena contro la parete di qualche edificio o contro
qualche cancellata, incurante del passaggio delle persone e dei loro
sguardi cinici o sprezzanti. In quei momenti, il ricordo di quel che
era stato e la consapevolezza di quel che era diventato, in uno
stridente contrasto, lo incupivano, fino a fargli perdere la
coscienza e a farlo rimanere lì, in quello stato, per ore. Non erano
i rumori a svegliarlo, ma i morsi della fame. Si alzava compiendo
gesti quasi automatici, strofinandosi la faccia con le mani e
grattandosi la barba lunga e incolta, ma in quel tardo pomeriggio,
tormentato com’era dai capogiri e dai fantasmi della mente appena
scacciati, fece una gran fatica a rialzarsi. Con un ultimo ed estremo
sforzo riuscì ad afferrare i suoi stracci, poi, dopo aver appoggiato
la schiena alla parete di un edificio e aver atteso che quel precario
equilibrio cedesse il posto ad un’apparente normalità, si rimise
in marcia.
Erano
ormai dodici anni che faceva quella vita. Per sopravvivere si era
tenacemente impegnato a rimuovere i ricordi di quella precedente,
quasi a voler cicatrizzare dolorose e sanguinanti ferite dell’anima,
ma talvolta, per strane alchimie, quei ricordi gli salivano
improvvisi alla mente, per il solo fatto di aver visto o sentito
qualcosa che li associava ad essi. Allora il suo corpo vibrava, la
sua mano cercava la bottiglia della grappa, che sorseggiava
nervosamente, poi una sigaretta, che aspirava senza quasi mai
staccarla dalle labbra, scosso da una feroce lotta fra la ragione e
l’inconscio, una lotta che lo scuoteva dalle fondamenta, come un
edificio di fronte ad una serie di forti scosse telluriche. In quei
momenti, era come in preda ad una forte crisi, che si acuiva o si
placava, a seconda che prevalesse l’inconscio o la ragione. Se era
l’inconscio a prevalere, all’apice di quella crisi, si metteva ad
urlare improvvisamente frasi sconnesse, a bestemmiare o ad inveire
con le mani levate al cielo, quasi cercasse in qualcosa di
sovrannaturale le cause del suo misero e ingrato destino.
In
quel tardo pomeriggio, però, mentre camminava, non aveva neanche la
forza di pensare. Guardava dinanzi a sé, come un atleta sfinito
guardi l’agognato traguardo, mentre il buio, sceso quasi
improvviso, misto alla fitta nebbia, davano alla città un aspetto
quasi spettrale. Camminava e nel contempo sentiva il suo stomaco
ululare, con dei forti boati che accompagnavano quel passo che si
faceva via via più affrettato. Se avesse potuto, sarebbe entrato in
una delle tante trattorie o pizzerie che incrociava, ma la sua meta,
la sua solita meta, era una povera quanto provvidenziale mensa, la
mensa dei poveri, dove insieme a lui confluivano tanti altri
rappresentanti di un’umanità dimenticata : un’umanità che
nessuno voleva salvare ma che non voleva neanche essere salvata.
Emilio era uno di quelli; un uomo che si ostinava a vivere in quello
stato di abbandono senza che nulla intervenisse a modificarlo, quasi
come se, in quello stato, trovasse un minimo motivo per esistere.
Questa
era la sua seconda vita. Una vita da emarginato, da “barbone”;
una vita in cui l’amore, l’amicizia, i soldi, le conoscenze e la
stessa salute, non avevano più alcun valore : tutto era ormai alle
sue spalle, insieme alla sua prima vita.
Tutto
accadde un brutto giorno di dodici anni prima, in una fumosa e
nervosa riunione d’affari, all’interno di una grande sala della
banca presso cui lavorava. Si occupava di finanziamenti ad alto
livello, era responsabile di un bel gruppo e, al di sopra di lui,
c’erano ben poche persone, direttore della banca compreso.
In
quella riunione si doveva discutere di un nuovo finanziamento con
emissione di obbligazioni e, a lui, era parso subito tutto marcio e
fittizio, uno di quei castelli di cartapesta che, con la sua ormai
decennale esperienza nel settore, non aveva avuto difficoltà a
intravedere. Quell’ ”affare”, insomma, era una truffa, una di
quelle truffe che avrebbe avuto come vittime gente ignara e onesta.
Emilio, ormai, non riusciva più chiudere gli occhi di fronte alla
realtà, diventata ormai un susseguirsi di chiaro-scuri, di penombre
che, nell’ultimo anno, da quando era stato promosso a manager e
responsabile del gruppo finanziamenti, l’avevano disilluso e
angosciato.
Quella
riunione gli tornava spesso alla mente e, nelle sue improvvise e
violenti farneticazioni, ne ripeteva l’esatto svolgimento,
interpretando la parte del direttore, del codazzo dei suoi servitori
e la sua, l’unica controcorrente e destinata alla sconfitta.
– Dobbiamo
assolutamente portare a segno questo affare! – tuonava il direttore
– Perché se non lo facciamo noi lo farà qualcun altro! Quindi,
signori, vi voglio tutti molto concentrati e pronti
nell’acquisire il maggior numero di clienti. Parlo, ovviamente,
anche e soprattutto a nome del nostro direttore generale, che mi ha
dato pieno mandato per questo delicato lavoro –
A
questo discorso, che Emilio ricordava parola per parola, seguì un
silenzio carico di sguardi ammiccanti e intensi, tesi al comune
convincimento dell’opera. Nessuno osava opporsi alle parole del
direttore; l’aprir bocca e proferire parole di dissenso avrebbe
significato un sicuro trasferimento e la fine di quelle piccole e
oscure carriere. Emilio ricordava ognuno di quei volti; da quelli più
giovani, ingenuamente entusiasti nell’intraprendere quella nuova
“avventura” a quelli più “scafati”, che annuendo e
accennando un istrionico sorriso verso il loro capo se ne
accattivavano simpatie e attenzioni. Ricordava soprattutto le parole
del direttore. Come dimenticare quell’apoteosi della demagogia,
quelle frottole raccontate ben sapendo quali disastrose conseguenze
avrebbero avuto sugli ignari futuri clienti?
Fu
quell’atmosfera quasi irreale a colpirlo, prima ancora
dell’insensatezza di quell’affare. Quelle persone, con a capo un
loro alto responsabile, stavano avallando una truffa legalizzata e
nessuno aveva intenzione di sollevare la benché minima obiezione o,
in alternativa, avere il benché minimo ripensamento interiore. I
loro volti e i loro sguardi, erano il segno di un consenso assoluto e
acritico su quanto si stava per compiere, in un impasto di ignoranza,
assenza di scrupoli e mancanza assoluta di etica professionale che ne
esaltava ancor di più gli obiettivi.
A
quel punto Emilio prese la parola. Il suo cuore era in tumulto.
Sapeva che le sue parole avrebbero potuto cambiare la sua vita, da
quel momento in poi, ma non riuscì proprio a mettere a tacere la sua
coscienza.
– Direttore
– disse, e qui il suo farneticare, nel ricordo vivido e indelebile,
diventava veemente e convulso – ma queste obbligazioni non hanno
copertura! Si… insomma… io ho letto tutto il dossier e non c’è
la giusta copertura per portare avanti questo affare! Rischiamo
d’infognarci in qualcosa da cui non riusciremmo ad uscire! –
– Ma
che dici Emilio! – proruppe il direttore – Ma… Valente! Cosa
stai dicendo?! Spero che tu stia scherzando! –
– Direttore…
non sto scherzando e me ne guarderei bene dal farlo. – rispose
Emilio e, nel frattempo, i sorrisini e i mugugni cominciarono a
farsi insistenti – Ho studiato le carte e, analizzandole a fondo e
non superficialmente, si arriva a questa conclusione –
Il
direttore non riusciva a capacitarsi come ci potesse essere, in quel
branco di persone ammaestrate, una voce fuori dal coro e,
soprattutto, come questa voce potesse venire da Emilio, uno dei
massimi responsabili di quel gruppo, una persona che aveva sempre
avallato le scelte superiori nell’insindacabile liturgia
gerarchica. Ed era questo ad inquietarlo, ma, dopo un primo momento
di stupore misto a rabbia repressa si riprese, e non tardò a
bacchettarlo.
– Emilio
Valente… con te parliamo dopo! – disse quasi ringhiando il
direttore – Ma… se non sei d’accordo, fatti pure da parte!
Qualcuno che ti rimpiazza lo troveremo –
A
quelle ultime parole del direttore, non potevano non far da
corollario i sorrisini e lo scherno strisciante dei presenti, condite
da frasi di sottofondo del tipo : “Che fesso… ma che cazzo gli
frega di farsi tutti ‘sti problemi?”, oppure, “E’ arrivato
Robin Hood! E’ stato proprio lui ad insegnarci ‘ste cose e
adesso fa lo scrupoloso… ” : non c’era un accenno minimo di
consenso, anzi, per i suoi colleghi Emilio aveva stupidamente firmato
la fine della sua carriera e, forse, della sua attività nell’area
finanziamenti. Il direttore, dopo un ultimo rinnovato appello per la
riuscita dell’impresa, accompagnato dal solito acquiescente assenso
dei suoi sottoposti ( da egli furbescamente definiti collaboratori ),
pose fine a quella specie di riunione e si alzò, seguito
immediatamente da un codazzo di fedeli servitori. Una volta fuori, e
dopo aver impartito alcuni ordini secchi e perentori ai suoi uomini
di fiducia, il direttore chiamò Emilio da parte. Quel momento, e
quelle laconiche e sferzanti parole, Emilio le aveva ben impresse
nella mente, perché furono più dolorose di una punizione corporale.
Aveva osato opporsi al diktat superiore, criticandolo apertamente e
per di più in una riunione plenaria, per questo doveva essere
severamente punito.
– Emilio...
– disse il direttore – tu sei stato il più valente e fidato
collaboratore che ho avuto in questi anni… non mi aspettavo questa
tua sciagurata uscita! Da oggi tornerai allo sportello… con i
finanziamenti hai chiuso! –
– Ma…
direttore!… Non ho detto falsità! Lo sa anche lei che questo
affare è senza coperture! –
– Basta!
Hai chiuso! –
Quella
due brevi e inappellabili parole, gli risuonavano impazzite nella
mente, concludendo le sue apparenti farneticazioni con la loro
ossessiva ripetizione : “hai chiuso! hai chiuso! hai chiuso!”.
E
aveva chiuso realmente. L’indomani fu dirottato a lavori d’ufficio
e di normale routine bancaria, con una mansione di gran lunga
inferiore : ma non fu questo a farlo fuggire da quel mondo. Fu il
voltafaccia dei colleghi, di coloro i quali, fino al giorno prima,
avevano mangiato e lavorato fianco a fianco con lui in un’apparente
solida amicizia, e poi quello della moglie, che lo aveva bollato come
idealista e ingenuo. Era riuscito, in una sola riunione, a mandare in
fumo anni di sacrifici, tutto per una sola osservazione critica.
Anche
quella sera non era riuscito a scacciare i suoi fantasmi. Forse
voleva solo conviverci per esorcizzarli o ridimensionarli a
sfortunati eventi del passato, ma non vi era mai riuscito,
trasformando quella teorica convivenza in una pratica ossessione. Si
fermava e proseguiva, parlava e taceva, scuoteva forte la testa e
rimaneva a tratti immobile, come a cercare la giusta ispirazione o la
necessaria concentrazione, fino a tornare lentamente in sè quando il
ricordo sfumava nell'ineluttabile presente. Fra la fitta nebbia e
l’oscurità, si stagliava, non lontano, parte del suo ineluttabile
presente, assumendo i contorni di un grande fabbricato dal colore
scuro e quasi indistinguibile nell’oscurità. Mancava poco alla
mensa, qualche centinaio di metri, ma improvvisamente ebbe quasi un
tuffo al cuore. Non aveva mai perso la cognizione del tempo e teneva
bene a mente lo scorrere dei giorni e quel giorno, proprio quel
giorno, il figlio compiva 23 anni. Avrebbe rinunciato anche alla
propria dignità pur di rivederlo e riabbracciarlo, ma non ne aveva
mai avuto il coraggio. Il suo slancio si fermava di fronte alla
vergogna di un uomo nudo e spoglio, senza averi nè speranze, col suo
solo smisurato amore per quel figlio a testimonianza di sé : ma per
lui non bastava. Era sporco e irriconoscibile, lacero nel corpo e
nell’animo, e quel figlio chissà se l’avrebbe accettato,
abbracciato e riconosciuto come colui che lo aveva tenuto in braccio
e aiutato a crescere fino ai dodici anni. Non aveva mai avuto il
coraggio di affrontare quella prova, perchè il rifiuto del figlio
sarebbe stato l’unico motivo per porre fine alla sua esistenza. Non
erano gli stenti a preoccuparlo : quelli li affrontava tutti i giorni
come normale quotidianità. Ciò che non riusciva a superare era il
trauma dell’evidente fallimento di una vita spinto
all’esasperazione : e il rifiuto di colui che è parte di te e
della tua essenza, era per lui un trauma insuperabile.
Rumori
indistinti provenivano ad una certa distanza e, pian piano, Emilio
cominciò a sentire voci ovattate che via via si facevano sempre più
forti. Sentì di nuovo il sangue pulsare e quegli angosciosi pensieri
svanire improvvisamente : era giunto ormai alla sospirata meta.