venerdì 5 aprile 2013

Incipit di Un'altra vita, scritto nel 2009

 
                                         1 – EMILIO

Era un pomeriggio freddo e nebbioso. Di tanto in tanto soffiava qualche gelida folata di vento, che alzava per qualche istante la nebbia ma, subito dopo, essa ripiombava cupa, fastidiosa e più opprimente che mai. Quel freddo, umido e pungente, penetrava nelle ossa già doloranti di Emilio, provocandogli fitte dolorose o spasmi improvvisi, ma aveva imparato a conviverci, immerso in un mondo in cui, la fisicità, non aveva più alcuna importanza. Da qualche giorno, però, ci si era messa anche la febbre, che in maniera intermittente scaldava e raffreddava il suo corpo. Alternava così ai colpi di calore improvvisi attacchi di freddo, che gli provocavano tremori in tutto il corpo e, tutto infagottato nei suoi stracci, camminava ramingo e senza meta, guardando la gente, le vetrine o parlando da solo. Di tanto in tanto si fermava a sgranocchiare qualcosa o a sorseggiare un po’ di grappa, riscaldando un po’ lo stomaco, freddo e contratto come tutto il resto del corpo, poi proseguiva nuovamente, quasi fosse destinato al moto perpetuo.
Era ancora un uomo piuttosto giovane, aveva 52 anni, ma sembrava avesse attirato su di sé tutti i guai del mondo. Rughe e piaghe ricoprivano gran parte del suo corpo e, a vederlo, sembrava avesse quindici anni in più. In quei giorni, per giunta, quella febbre che andava e veniva l’aveva ulteriormente debilitato, costringendolo a frequenti soste in cui, in mancanza di una panchina, si abbandonava per terra, appoggiando la schiena contro la parete di qualche edificio o contro qualche cancellata, incurante del passaggio delle persone e dei loro sguardi cinici o sprezzanti. In quei momenti, il ricordo di quel che era stato e la consapevolezza di quel che era diventato, in uno stridente contrasto, lo incupivano, fino a fargli perdere la coscienza e a farlo rimanere lì, in quello stato, per ore. Non erano i rumori a svegliarlo, ma i morsi della fame. Si alzava compiendo gesti quasi automatici, strofinandosi la faccia con le mani e grattandosi la barba lunga e incolta, ma in quel tardo pomeriggio, tormentato com’era dai capogiri e dai fantasmi della mente appena scacciati, fece una gran fatica a rialzarsi. Con un ultimo ed estremo sforzo riuscì ad afferrare i suoi stracci, poi, dopo aver appoggiato la schiena alla parete di un edificio e aver atteso che quel precario equilibrio cedesse il posto ad un’apparente normalità, si rimise in marcia.
Erano ormai dodici anni che faceva quella vita. Per sopravvivere si era tenacemente impegnato a rimuovere i ricordi di quella precedente, quasi a voler cicatrizzare dolorose e sanguinanti ferite dell’anima, ma talvolta, per strane alchimie, quei ricordi gli salivano improvvisi alla mente, per il solo fatto di aver visto o sentito qualcosa che li associava ad essi. Allora il suo corpo vibrava, la sua mano cercava la bottiglia della grappa, che sorseggiava nervosamente, poi una sigaretta, che aspirava senza quasi mai staccarla dalle labbra, scosso da una feroce lotta fra la ragione e l’inconscio, una lotta che lo scuoteva dalle fondamenta, come un edificio di fronte ad una serie di forti scosse telluriche. In quei momenti, era come in preda ad una forte crisi, che si acuiva o si placava, a seconda che prevalesse l’inconscio o la ragione. Se era l’inconscio a prevalere, all’apice di quella crisi, si metteva ad urlare improvvisamente frasi sconnesse, a bestemmiare o ad inveire con le mani levate al cielo, quasi cercasse in qualcosa di sovrannaturale le cause del suo misero e ingrato destino.
In quel tardo pomeriggio, però, mentre camminava, non aveva neanche la forza di pensare. Guardava dinanzi a sé, come un atleta sfinito guardi l’agognato traguardo, mentre il buio, sceso quasi improvviso, misto alla fitta nebbia, davano alla città un aspetto quasi spettrale. Camminava e nel contempo sentiva il suo stomaco ululare, con dei forti boati che accompagnavano quel passo che si faceva via via più affrettato. Se avesse potuto, sarebbe entrato in una delle tante trattorie o pizzerie che incrociava, ma la sua meta, la sua solita meta, era una povera quanto provvidenziale mensa, la mensa dei poveri, dove insieme a lui confluivano tanti altri rappresentanti di un’umanità dimenticata : un’umanità che nessuno voleva salvare ma che non voleva neanche essere salvata. Emilio era uno di quelli; un uomo che si ostinava a vivere in quello stato di abbandono senza che nulla intervenisse a modificarlo, quasi come se, in quello stato, trovasse un minimo motivo per esistere.
Questa era la sua seconda vita. Una vita da emarginato, da “barbone”; una vita in cui l’amore, l’amicizia, i soldi, le conoscenze e la stessa salute, non avevano più alcun valore : tutto era ormai alle sue spalle, insieme alla sua prima vita.
Tutto accadde un brutto giorno di dodici anni prima, in una fumosa e nervosa riunione d’affari, all’interno di una grande sala della banca presso cui lavorava. Si occupava di finanziamenti ad alto livello, era responsabile di un bel gruppo e, al di sopra di lui, c’erano ben poche persone, direttore della banca compreso.
In quella riunione si doveva discutere di un nuovo finanziamento con emissione di obbligazioni e, a lui, era parso subito tutto marcio e fittizio, uno di quei castelli di cartapesta che, con la sua ormai decennale esperienza nel settore, non aveva avuto difficoltà a intravedere. Quell’ ”affare”, insomma, era una truffa, una di quelle truffe che avrebbe avuto come vittime gente ignara e onesta. Emilio, ormai, non riusciva più chiudere gli occhi di fronte alla realtà, diventata ormai un susseguirsi di chiaro-scuri, di penombre che, nell’ultimo anno, da quando era stato promosso a manager e responsabile del gruppo finanziamenti, l’avevano disilluso e angosciato.
Quella riunione gli tornava spesso alla mente e, nelle sue improvvise e violenti farneticazioni, ne ripeteva l’esatto svolgimento, interpretando la parte del direttore, del codazzo dei suoi servitori e la sua, l’unica controcorrente e destinata alla sconfitta.

Dobbiamo assolutamente portare a segno questo affare! – tuonava il direttore – Perché se non lo facciamo noi lo farà qualcun altro! Quindi, signori, vi voglio tutti molto concentrati e pronti nell’acquisire il maggior numero di clienti. Parlo, ovviamente, anche e soprattutto a nome del nostro direttore generale, che mi ha dato pieno mandato per questo delicato lavoro –

A questo discorso, che Emilio ricordava parola per parola, seguì un silenzio carico di sguardi ammiccanti e intensi, tesi al comune convincimento dell’opera. Nessuno osava opporsi alle parole del direttore; l’aprir bocca e proferire parole di dissenso avrebbe significato un sicuro trasferimento e la fine di quelle piccole e oscure carriere. Emilio ricordava ognuno di quei volti; da quelli più giovani, ingenuamente entusiasti nell’intraprendere quella nuova “avventura” a quelli più “scafati”, che annuendo e accennando un istrionico sorriso verso il loro capo se ne accattivavano simpatie e attenzioni. Ricordava soprattutto le parole del direttore. Come dimenticare quell’apoteosi della demagogia, quelle frottole raccontate ben sapendo quali disastrose conseguenze avrebbero avuto sugli ignari futuri clienti?
Fu quell’atmosfera quasi irreale a colpirlo, prima ancora dell’insensatezza di quell’affare. Quelle persone, con a capo un loro alto responsabile, stavano avallando una truffa legalizzata e nessuno aveva intenzione di sollevare la benché minima obiezione o, in alternativa, avere il benché minimo ripensamento interiore. I loro volti e i loro sguardi, erano il segno di un consenso assoluto e acritico su quanto si stava per compiere, in un impasto di ignoranza, assenza di scrupoli e mancanza assoluta di etica professionale che ne esaltava ancor di più gli obiettivi.
A quel punto Emilio prese la parola. Il suo cuore era in tumulto. Sapeva che le sue parole avrebbero potuto cambiare la sua vita, da quel momento in poi, ma non riuscì proprio a mettere a tacere la sua coscienza.

Direttore – disse, e qui il suo farneticare, nel ricordo vivido e indelebile, diventava veemente e convulso – ma queste obbligazioni non hanno copertura! Si… insomma… io ho letto tutto il dossier e non c’è la giusta copertura per portare avanti questo affare! Rischiamo d’infognarci in qualcosa da cui non riusciremmo ad uscire! –
Ma che dici Emilio! – proruppe il direttore – Ma… Valente! Cosa stai dicendo?! Spero che tu stia scherzando! –
Direttore… non sto scherzando e me ne guarderei bene dal farlo. – rispose Emilio e, nel frattempo, i sorrisini e i mugugni cominciarono a farsi insistenti – Ho studiato le carte e, analizzandole a fondo e non superficialmente, si arriva a questa conclusione –

Il direttore non riusciva a capacitarsi come ci potesse essere, in quel branco di persone ammaestrate, una voce fuori dal coro e, soprattutto, come questa voce potesse venire da Emilio, uno dei massimi responsabili di quel gruppo, una persona che aveva sempre avallato le scelte superiori nell’insindacabile liturgia gerarchica. Ed era questo ad inquietarlo, ma, dopo un primo momento di stupore misto a rabbia repressa si riprese, e non tardò a bacchettarlo.

Emilio Valente… con te parliamo dopo! – disse quasi ringhiando il direttore – Ma… se non sei d’accordo, fatti pure da parte! Qualcuno che ti rimpiazza lo troveremo –

A quelle ultime parole del direttore, non potevano non far da corollario i sorrisini e lo scherno strisciante dei presenti, condite da frasi di sottofondo del tipo : “Che fesso… ma che cazzo gli frega di farsi tutti ‘sti problemi?”, oppure, “E’ arrivato Robin Hood! E’ stato proprio lui ad insegnarci ‘ste cose e adesso fa lo scrupoloso… ” : non c’era un accenno minimo di consenso, anzi, per i suoi colleghi Emilio aveva stupidamente firmato la fine della sua carriera e, forse, della sua attività nell’area finanziamenti. Il direttore, dopo un ultimo rinnovato appello per la riuscita dell’impresa, accompagnato dal solito acquiescente assenso dei suoi sottoposti ( da egli furbescamente definiti collaboratori ), pose fine a quella specie di riunione e si alzò, seguito immediatamente da un codazzo di fedeli servitori. Una volta fuori, e dopo aver impartito alcuni ordini secchi e perentori ai suoi uomini di fiducia, il direttore chiamò Emilio da parte. Quel momento, e quelle laconiche e sferzanti parole, Emilio le aveva ben impresse nella mente, perché furono più dolorose di una punizione corporale. Aveva osato opporsi al diktat superiore, criticandolo apertamente e per di più in una riunione plenaria, per questo doveva essere severamente punito.

Emilio... – disse il direttore – tu sei stato il più valente e fidato collaboratore che ho avuto in questi anni… non mi aspettavo questa tua sciagurata uscita! Da oggi tornerai allo sportello… con i finanziamenti hai chiuso! –
Ma… direttore!… Non ho detto falsità! Lo sa anche lei che questo affare è senza coperture! –
Basta! Hai chiuso! –

Quella due brevi e inappellabili parole, gli risuonavano impazzite nella mente, concludendo le sue apparenti farneticazioni con la loro ossessiva ripetizione : “hai chiuso! hai chiuso! hai chiuso!”.
E aveva chiuso realmente. L’indomani fu dirottato a lavori d’ufficio e di normale routine bancaria, con una mansione di gran lunga inferiore : ma non fu questo a farlo fuggire da quel mondo. Fu il voltafaccia dei colleghi, di coloro i quali, fino al giorno prima, avevano mangiato e lavorato fianco a fianco con lui in un’apparente solida amicizia, e poi quello della moglie, che lo aveva bollato come idealista e ingenuo. Era riuscito, in una sola riunione, a mandare in fumo anni di sacrifici, tutto per una sola osservazione critica.
Anche quella sera non era riuscito a scacciare i suoi fantasmi. Forse voleva solo conviverci per esorcizzarli o ridimensionarli a sfortunati eventi del passato, ma non vi era mai riuscito, trasformando quella teorica convivenza in una pratica ossessione. Si fermava e proseguiva, parlava e taceva, scuoteva forte la testa e rimaneva a tratti immobile, come a cercare la giusta ispirazione o la necessaria concentrazione, fino a tornare lentamente in sè quando il ricordo sfumava nell'ineluttabile presente. Fra la fitta nebbia e l’oscurità, si stagliava, non lontano, parte del suo ineluttabile presente, assumendo i contorni di un grande fabbricato dal colore scuro e quasi indistinguibile nell’oscurità. Mancava poco alla mensa, qualche centinaio di metri, ma improvvisamente ebbe quasi un tuffo al cuore. Non aveva mai perso la cognizione del tempo e teneva bene a mente lo scorrere dei giorni e quel giorno, proprio quel giorno, il figlio compiva 23 anni. Avrebbe rinunciato anche alla propria dignità pur di rivederlo e riabbracciarlo, ma non ne aveva mai avuto il coraggio. Il suo slancio si fermava di fronte alla vergogna di un uomo nudo e spoglio, senza averi nè speranze, col suo solo smisurato amore per quel figlio a testimonianza di sé : ma per lui non bastava. Era sporco e irriconoscibile, lacero nel corpo e nell’animo, e quel figlio chissà se l’avrebbe accettato, abbracciato e riconosciuto come colui che lo aveva tenuto in braccio e aiutato a crescere fino ai dodici anni. Non aveva mai avuto il coraggio di affrontare quella prova, perchè il rifiuto del figlio sarebbe stato l’unico motivo per porre fine alla sua esistenza. Non erano gli stenti a preoccuparlo : quelli li affrontava tutti i giorni come normale quotidianità. Ciò che non riusciva a superare era il trauma dell’evidente fallimento di una vita spinto all’esasperazione : e il rifiuto di colui che è parte di te e della tua essenza, era per lui un trauma insuperabile.
Rumori indistinti provenivano ad una certa distanza e, pian piano, Emilio cominciò a sentire voci ovattate che via via si facevano sempre più forti. Sentì di nuovo il sangue pulsare e quegli angosciosi pensieri svanire improvvisamente : era giunto ormai alla sospirata meta.

  

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