venerdì 5 aprile 2013

Incipit di Un'altra vita, scritto nel 2009

 
                                         1 – EMILIO

Era un pomeriggio freddo e nebbioso. Di tanto in tanto soffiava qualche gelida folata di vento, che alzava per qualche istante la nebbia ma, subito dopo, essa ripiombava cupa, fastidiosa e più opprimente che mai. Quel freddo, umido e pungente, penetrava nelle ossa già doloranti di Emilio, provocandogli fitte dolorose o spasmi improvvisi, ma aveva imparato a conviverci, immerso in un mondo in cui, la fisicità, non aveva più alcuna importanza. Da qualche giorno, però, ci si era messa anche la febbre, che in maniera intermittente scaldava e raffreddava il suo corpo. Alternava così ai colpi di calore improvvisi attacchi di freddo, che gli provocavano tremori in tutto il corpo e, tutto infagottato nei suoi stracci, camminava ramingo e senza meta, guardando la gente, le vetrine o parlando da solo. Di tanto in tanto si fermava a sgranocchiare qualcosa o a sorseggiare un po’ di grappa, riscaldando un po’ lo stomaco, freddo e contratto come tutto il resto del corpo, poi proseguiva nuovamente, quasi fosse destinato al moto perpetuo.
Era ancora un uomo piuttosto giovane, aveva 52 anni, ma sembrava avesse attirato su di sé tutti i guai del mondo. Rughe e piaghe ricoprivano gran parte del suo corpo e, a vederlo, sembrava avesse quindici anni in più. In quei giorni, per giunta, quella febbre che andava e veniva l’aveva ulteriormente debilitato, costringendolo a frequenti soste in cui, in mancanza di una panchina, si abbandonava per terra, appoggiando la schiena contro la parete di qualche edificio o contro qualche cancellata, incurante del passaggio delle persone e dei loro sguardi cinici o sprezzanti. In quei momenti, il ricordo di quel che era stato e la consapevolezza di quel che era diventato, in uno stridente contrasto, lo incupivano, fino a fargli perdere la coscienza e a farlo rimanere lì, in quello stato, per ore. Non erano i rumori a svegliarlo, ma i morsi della fame. Si alzava compiendo gesti quasi automatici, strofinandosi la faccia con le mani e grattandosi la barba lunga e incolta, ma in quel tardo pomeriggio, tormentato com’era dai capogiri e dai fantasmi della mente appena scacciati, fece una gran fatica a rialzarsi. Con un ultimo ed estremo sforzo riuscì ad afferrare i suoi stracci, poi, dopo aver appoggiato la schiena alla parete di un edificio e aver atteso che quel precario equilibrio cedesse il posto ad un’apparente normalità, si rimise in marcia.
Erano ormai dodici anni che faceva quella vita. Per sopravvivere si era tenacemente impegnato a rimuovere i ricordi di quella precedente, quasi a voler cicatrizzare dolorose e sanguinanti ferite dell’anima, ma talvolta, per strane alchimie, quei ricordi gli salivano improvvisi alla mente, per il solo fatto di aver visto o sentito qualcosa che li associava ad essi. Allora il suo corpo vibrava, la sua mano cercava la bottiglia della grappa, che sorseggiava nervosamente, poi una sigaretta, che aspirava senza quasi mai staccarla dalle labbra, scosso da una feroce lotta fra la ragione e l’inconscio, una lotta che lo scuoteva dalle fondamenta, come un edificio di fronte ad una serie di forti scosse telluriche. In quei momenti, era come in preda ad una forte crisi, che si acuiva o si placava, a seconda che prevalesse l’inconscio o la ragione. Se era l’inconscio a prevalere, all’apice di quella crisi, si metteva ad urlare improvvisamente frasi sconnesse, a bestemmiare o ad inveire con le mani levate al cielo, quasi cercasse in qualcosa di sovrannaturale le cause del suo misero e ingrato destino.
In quel tardo pomeriggio, però, mentre camminava, non aveva neanche la forza di pensare. Guardava dinanzi a sé, come un atleta sfinito guardi l’agognato traguardo, mentre il buio, sceso quasi improvviso, misto alla fitta nebbia, davano alla città un aspetto quasi spettrale. Camminava e nel contempo sentiva il suo stomaco ululare, con dei forti boati che accompagnavano quel passo che si faceva via via più affrettato. Se avesse potuto, sarebbe entrato in una delle tante trattorie o pizzerie che incrociava, ma la sua meta, la sua solita meta, era una povera quanto provvidenziale mensa, la mensa dei poveri, dove insieme a lui confluivano tanti altri rappresentanti di un’umanità dimenticata : un’umanità che nessuno voleva salvare ma che non voleva neanche essere salvata. Emilio era uno di quelli; un uomo che si ostinava a vivere in quello stato di abbandono senza che nulla intervenisse a modificarlo, quasi come se, in quello stato, trovasse un minimo motivo per esistere.
Questa era la sua seconda vita. Una vita da emarginato, da “barbone”; una vita in cui l’amore, l’amicizia, i soldi, le conoscenze e la stessa salute, non avevano più alcun valore : tutto era ormai alle sue spalle, insieme alla sua prima vita.
Tutto accadde un brutto giorno di dodici anni prima, in una fumosa e nervosa riunione d’affari, all’interno di una grande sala della banca presso cui lavorava. Si occupava di finanziamenti ad alto livello, era responsabile di un bel gruppo e, al di sopra di lui, c’erano ben poche persone, direttore della banca compreso.
In quella riunione si doveva discutere di un nuovo finanziamento con emissione di obbligazioni e, a lui, era parso subito tutto marcio e fittizio, uno di quei castelli di cartapesta che, con la sua ormai decennale esperienza nel settore, non aveva avuto difficoltà a intravedere. Quell’ ”affare”, insomma, era una truffa, una di quelle truffe che avrebbe avuto come vittime gente ignara e onesta. Emilio, ormai, non riusciva più chiudere gli occhi di fronte alla realtà, diventata ormai un susseguirsi di chiaro-scuri, di penombre che, nell’ultimo anno, da quando era stato promosso a manager e responsabile del gruppo finanziamenti, l’avevano disilluso e angosciato.
Quella riunione gli tornava spesso alla mente e, nelle sue improvvise e violenti farneticazioni, ne ripeteva l’esatto svolgimento, interpretando la parte del direttore, del codazzo dei suoi servitori e la sua, l’unica controcorrente e destinata alla sconfitta.

Dobbiamo assolutamente portare a segno questo affare! – tuonava il direttore – Perché se non lo facciamo noi lo farà qualcun altro! Quindi, signori, vi voglio tutti molto concentrati e pronti nell’acquisire il maggior numero di clienti. Parlo, ovviamente, anche e soprattutto a nome del nostro direttore generale, che mi ha dato pieno mandato per questo delicato lavoro –

A questo discorso, che Emilio ricordava parola per parola, seguì un silenzio carico di sguardi ammiccanti e intensi, tesi al comune convincimento dell’opera. Nessuno osava opporsi alle parole del direttore; l’aprir bocca e proferire parole di dissenso avrebbe significato un sicuro trasferimento e la fine di quelle piccole e oscure carriere. Emilio ricordava ognuno di quei volti; da quelli più giovani, ingenuamente entusiasti nell’intraprendere quella nuova “avventura” a quelli più “scafati”, che annuendo e accennando un istrionico sorriso verso il loro capo se ne accattivavano simpatie e attenzioni. Ricordava soprattutto le parole del direttore. Come dimenticare quell’apoteosi della demagogia, quelle frottole raccontate ben sapendo quali disastrose conseguenze avrebbero avuto sugli ignari futuri clienti?
Fu quell’atmosfera quasi irreale a colpirlo, prima ancora dell’insensatezza di quell’affare. Quelle persone, con a capo un loro alto responsabile, stavano avallando una truffa legalizzata e nessuno aveva intenzione di sollevare la benché minima obiezione o, in alternativa, avere il benché minimo ripensamento interiore. I loro volti e i loro sguardi, erano il segno di un consenso assoluto e acritico su quanto si stava per compiere, in un impasto di ignoranza, assenza di scrupoli e mancanza assoluta di etica professionale che ne esaltava ancor di più gli obiettivi.
A quel punto Emilio prese la parola. Il suo cuore era in tumulto. Sapeva che le sue parole avrebbero potuto cambiare la sua vita, da quel momento in poi, ma non riuscì proprio a mettere a tacere la sua coscienza.

Direttore – disse, e qui il suo farneticare, nel ricordo vivido e indelebile, diventava veemente e convulso – ma queste obbligazioni non hanno copertura! Si… insomma… io ho letto tutto il dossier e non c’è la giusta copertura per portare avanti questo affare! Rischiamo d’infognarci in qualcosa da cui non riusciremmo ad uscire! –
Ma che dici Emilio! – proruppe il direttore – Ma… Valente! Cosa stai dicendo?! Spero che tu stia scherzando! –
Direttore… non sto scherzando e me ne guarderei bene dal farlo. – rispose Emilio e, nel frattempo, i sorrisini e i mugugni cominciarono a farsi insistenti – Ho studiato le carte e, analizzandole a fondo e non superficialmente, si arriva a questa conclusione –

Il direttore non riusciva a capacitarsi come ci potesse essere, in quel branco di persone ammaestrate, una voce fuori dal coro e, soprattutto, come questa voce potesse venire da Emilio, uno dei massimi responsabili di quel gruppo, una persona che aveva sempre avallato le scelte superiori nell’insindacabile liturgia gerarchica. Ed era questo ad inquietarlo, ma, dopo un primo momento di stupore misto a rabbia repressa si riprese, e non tardò a bacchettarlo.

Emilio Valente… con te parliamo dopo! – disse quasi ringhiando il direttore – Ma… se non sei d’accordo, fatti pure da parte! Qualcuno che ti rimpiazza lo troveremo –

A quelle ultime parole del direttore, non potevano non far da corollario i sorrisini e lo scherno strisciante dei presenti, condite da frasi di sottofondo del tipo : “Che fesso… ma che cazzo gli frega di farsi tutti ‘sti problemi?”, oppure, “E’ arrivato Robin Hood! E’ stato proprio lui ad insegnarci ‘ste cose e adesso fa lo scrupoloso… ” : non c’era un accenno minimo di consenso, anzi, per i suoi colleghi Emilio aveva stupidamente firmato la fine della sua carriera e, forse, della sua attività nell’area finanziamenti. Il direttore, dopo un ultimo rinnovato appello per la riuscita dell’impresa, accompagnato dal solito acquiescente assenso dei suoi sottoposti ( da egli furbescamente definiti collaboratori ), pose fine a quella specie di riunione e si alzò, seguito immediatamente da un codazzo di fedeli servitori. Una volta fuori, e dopo aver impartito alcuni ordini secchi e perentori ai suoi uomini di fiducia, il direttore chiamò Emilio da parte. Quel momento, e quelle laconiche e sferzanti parole, Emilio le aveva ben impresse nella mente, perché furono più dolorose di una punizione corporale. Aveva osato opporsi al diktat superiore, criticandolo apertamente e per di più in una riunione plenaria, per questo doveva essere severamente punito.

Emilio... – disse il direttore – tu sei stato il più valente e fidato collaboratore che ho avuto in questi anni… non mi aspettavo questa tua sciagurata uscita! Da oggi tornerai allo sportello… con i finanziamenti hai chiuso! –
Ma… direttore!… Non ho detto falsità! Lo sa anche lei che questo affare è senza coperture! –
Basta! Hai chiuso! –

Quella due brevi e inappellabili parole, gli risuonavano impazzite nella mente, concludendo le sue apparenti farneticazioni con la loro ossessiva ripetizione : “hai chiuso! hai chiuso! hai chiuso!”.
E aveva chiuso realmente. L’indomani fu dirottato a lavori d’ufficio e di normale routine bancaria, con una mansione di gran lunga inferiore : ma non fu questo a farlo fuggire da quel mondo. Fu il voltafaccia dei colleghi, di coloro i quali, fino al giorno prima, avevano mangiato e lavorato fianco a fianco con lui in un’apparente solida amicizia, e poi quello della moglie, che lo aveva bollato come idealista e ingenuo. Era riuscito, in una sola riunione, a mandare in fumo anni di sacrifici, tutto per una sola osservazione critica.
Anche quella sera non era riuscito a scacciare i suoi fantasmi. Forse voleva solo conviverci per esorcizzarli o ridimensionarli a sfortunati eventi del passato, ma non vi era mai riuscito, trasformando quella teorica convivenza in una pratica ossessione. Si fermava e proseguiva, parlava e taceva, scuoteva forte la testa e rimaneva a tratti immobile, come a cercare la giusta ispirazione o la necessaria concentrazione, fino a tornare lentamente in sè quando il ricordo sfumava nell'ineluttabile presente. Fra la fitta nebbia e l’oscurità, si stagliava, non lontano, parte del suo ineluttabile presente, assumendo i contorni di un grande fabbricato dal colore scuro e quasi indistinguibile nell’oscurità. Mancava poco alla mensa, qualche centinaio di metri, ma improvvisamente ebbe quasi un tuffo al cuore. Non aveva mai perso la cognizione del tempo e teneva bene a mente lo scorrere dei giorni e quel giorno, proprio quel giorno, il figlio compiva 23 anni. Avrebbe rinunciato anche alla propria dignità pur di rivederlo e riabbracciarlo, ma non ne aveva mai avuto il coraggio. Il suo slancio si fermava di fronte alla vergogna di un uomo nudo e spoglio, senza averi nè speranze, col suo solo smisurato amore per quel figlio a testimonianza di sé : ma per lui non bastava. Era sporco e irriconoscibile, lacero nel corpo e nell’animo, e quel figlio chissà se l’avrebbe accettato, abbracciato e riconosciuto come colui che lo aveva tenuto in braccio e aiutato a crescere fino ai dodici anni. Non aveva mai avuto il coraggio di affrontare quella prova, perchè il rifiuto del figlio sarebbe stato l’unico motivo per porre fine alla sua esistenza. Non erano gli stenti a preoccuparlo : quelli li affrontava tutti i giorni come normale quotidianità. Ciò che non riusciva a superare era il trauma dell’evidente fallimento di una vita spinto all’esasperazione : e il rifiuto di colui che è parte di te e della tua essenza, era per lui un trauma insuperabile.
Rumori indistinti provenivano ad una certa distanza e, pian piano, Emilio cominciò a sentire voci ovattate che via via si facevano sempre più forti. Sentì di nuovo il sangue pulsare e quegli angosciosi pensieri svanire improvvisamente : era giunto ormai alla sospirata meta.

  

Incipit di Nemesi, scritto nel 2007


                                           CAPITOLO 1

L’ultimo atto di un uomo, il suo atto estremo, è l’applicazione di una personale sentenza sulla propria vita passata. Un’applicazione sintetizzata in un attimo e in un gesto, inappellabile e irreversibile. Con quella pistola in mano, Iacopo voleva compiere quel gesto.
Si avvicina così allo specchio e guarda la sua immagine riflessa, quasi incredulo. È lui quello con la pistola puntata alla tempia: la mano che impugna quella pistola è la sua e quel dito che sta per premere il grilletto pure. Chiude gli occhi: fra un attimo non li riaprirà più.
D’improvviso un urlo nella notte. Era stato solo un sogno, un brutto sogno, un incubo. Iacopo si sveglia, madido di sudore e affannato. La moglie era lì, vicino a lui, si era svegliata anche lei di soprassalto, terrorizzata e incredula.
- Iacopo! – disse afferrandogli le braccia – Ma che è successo? Che è successo, dimmi!
- Niente Simona, niente… Solo… solo un brutto sogno… Dormi, sta tranquilla…
- Ma sei sicuro di stare bene?
- Sì. Ti ho detto di stare tranquilla… Dormi, non è niente…
Iacopo si girò dell’altra parte, tentando di riaddormentarsi, ma ormai la paura di quell’immagine raggelante continuava a tenerlo sveglio. Quella paura aveva contagiato anche la moglie, quell’urlo aveva squarciato il silenzio della notte. Erano l’uno di spalle all’altra. Entrambi terrorizzati al pensiero di risvegliarsi di soprassalto, entrambi con gli occhi sbarrati e persi nel vuoto, entrambi in silenzio. Lui si chiedeva il perché di quell’incubo, lei di quell’urlo quasi disumano. Poi, quasi per sfinimento, finirono con l’addormentarsi.
Quell’incubo non si ripresentò più e la mattina arrivò, annunciata da uno splendido sole che filtrava attraverso le serrande semi-abbassate. Iacopo aprì gli occhi ma li richiuse immediatamente, quasi abbagliato dai raggi di quel sole mattutino. Poi si girò di scatto, quasi meccanicamente, guardando l’ora: erano le sette e mezza. Era tardissimo! Si alzò dal letto di soprassalto e si diresse in bagno per farsi la doccia: lo fece con la stessa velocità di chi è inseguito da una muta di cani. Mentre si insaponava non faceva altro che pensare a quell’incubo. Non gli era mai successo di mettere in scena, seppur attraverso un sogno, il proprio suicidio. Ma che cavolo significava? Non era mai stato uno stinco di santo; pochi (o addirittura nessuno) provavano affetto o rispetto umano per lui, ma non aveva mai pensato che, fra questi, dovesse annoverare anche se stesso. I suoi pensieri furono bruscamente interrotti da una voce di donna: era la moglie, svegliatasi anche lei di soprassalto.
- Iacopo! Iacopo, ascolta… - disse bussando sull’ampio box doccia.
- Che c’è?
- Ti preparo la colazione?
- No, è tardi. Fammi solo un caffè che devo scappare.
- Va bene.
Terminata la doccia, Iacopo si mise l’accappatoio e si diresse nell’enorme cucina.
- Ma la governante non c’è oggi? – chiese alla moglie.
- No, lo sai che oggi è il suo giorno libero.
- Ah, già… E Andrea?
Andrea era il figlio, il loro unico figlio.
- Andrea è andato per qualche giorno in gita con i suoi compagni di università…
- E non mi hai detto niente?
- Come faccio a dirtelo Iacopo, se torni sempre a sera tardi e non ci guardi neanche in faccia?
- Come se tornassi da una festa… A proposito, stasera sono stato invitato dal ministro alla festa del suo partito… Devi venire anche tu, Simona…
- Oh no, quelle noiose e inutili feste…
- Beh, quell’uomo mi serve, può spianarci la strada per nuove commesse… É una conoscenza importante…
- E cosa dovrei fare stavolta?
- Quello che hai sempre fatto… Lusingalo, fagli i complimenti per… per qualsiasi cosa, dall’abbigliamento al modo di porgersi…
- Sei passato agli onorevoli, adesso… Dopo gli avvocati, i vescovi, i comandanti della finanza e dei carabinieri, adesso anche gli onorevoli…
- Con lui però devi avere un approccio diverso: se i vescovi mi danno la benedizione o l’assoluzione e gli avvocati, gli uomini dell’arma e i finanzieri mi fanno da scudo, gli onorevoli o i ministri mi fanno da grimaldello…
- Cioè?
- Mi consentono di aprire qualsiasi porta…
- É tutta la vita che pensi a quello… Non abbiamo già abbastanza?
- Tu fai solo ciò ti ho detto e basta!
- Iacopo… Hai un’azienda di quasi duemila persone, abbiamo soldi che potremmo dar da vivere a un paese intero e tu, tu continui imperterrito a fare la stessa vita… Vai via alle otto del mattino e torni, per ben che vada, alle dieci di sera! Che ce ne facciamo di tutti questi soldi, allora?
- Simona, Simona… Non continuo solo per fare più soldi… Di quelli, come hai detto tu, ne abbiamo già abbastanza.
- E allora? Spiegamelo una buona volta!
- L’hai sempre saputo che non sopporto fermarmi… É vero, mi potrei godere i soldi, ma perderei quel potere che va al di là dei soldi… Il potere è rispetto, è come Dio, cui tutti si sottomettono, e fa lievitare il denaro con poca fatica.
- Ma cosa dici Iacopo?
- Cosa dico? Chiedilo ai miei manager… Non fanno altro che scodinzolarmi intorno. - Dottore, avremmo quell’appuntamento… Dottore, ha mica un minuto? Se lei mi permette, dottore? - É questo quello che sento tutto il giorno… Dovresti vedere che bel gregge di pecore che ho allevato!
- Ma così invecchierai senza neanche rendertene conto!
- Invecchio godendo, Simona… Come muovo il dito mi sono tutti intorno, tutti ad obbedirmi come cagnolini, senza nessuna dignità né rispetto per se stessi…
- Basta Iacopo, basta! É per questo che non ho mai voluto sapere che cosa facessi in azienda… prima di questa notte.
- Questa notte?
- Sì, non ti ricordi che urlo hai lanciato?
- Ah, sì… Ma questo che c’entra?
- C’entra, c’entra… Forse ciò che non hanno coraggio di dirti gli altri, comincia a dirtelo la tua coscienza…
- Ma smettila con tutte queste scemenze! É stato solo un incubo, come tanti altri… A te non è mai capitato?
- No, mai.
- Mi sei stata sempre vicina, mi conosci dunque… A te non dovrebbe rimordere la coscienza ?
- No, non ho mai avuto incubi e ti sono vicina solo perché in te vedo mio marito, non la persona che mi hai appena descritto!
- Basta adesso! Vado a vestirmi.
Iacopo andò a vestirsi velocemente. Poi, prima di andarsene, ricordò l’appuntamento della sera alla moglie.
- Ci vediamo stasera, vengo a prenderti io per le otto… Mi raccomando, fatti trovare pronta… - disse.
- Sì, sì - rispose un po’ scocciata lei – a stasera…

sabato 7 maggio 2011

Democrazia...

In che cosa si riduce la nostra democrazia ? Ad un semplice movimento che si basa sull'apporre un segno su una scheda "imbucandola" in un'urna, magari turandosiil naso. Il cittadino, dopo questo "gesto" di democrazia, viene ignorato, calpestato e il suo nome e le sue speranze affidate a coloro che, del suo voto, ne fanno un simbolo di potere da sventolare come un vessillo.
Mi piace pensare alla canzone di Gaber, dove si associa la parola "democrazia" alla parola "partecipazione". La democrazia, ora, è partecipazione. Ma è partecipazione passiva, sintetizzata in quel gesto della mano che infila la scheda nell'urna. Passiva perchè non sceglie il candidato e passiva perchè non incide.
Democrazia è tale nel momento in cui il cittadino, dal basso, ha la capacità e soprattutto il potere d'incidere sulle scelte politiche ed economiche. Quanti di coloro che disapprovano le scelte politiche del partito e dei candidati che hanno votato, hanno la possibilità e il potere di essere ascoltati, magari inducendo una sorta di resipiscenza nei propri eletti? E quanti di noi ci hanno provato e si sono scontrati contro un velo di ipocrisia, di superficialità o, semplicemente, di disinteresse da parte della politica e dei politicanti ?
Se la democrazia è compiuta, dovrebbe poter prevedere il pubblico ravvedimento di coloro che, votati, devono continuare a rispondere al cittadino, così come hanno promesso di fare prima di essere eletti. E se il ravvedimento non c'è, ci deve comunque essere quel rapporto dialogico che prevede il contatto e lo scambio verbale che unisce elettore ed eletto, e che è il simbolo della continuità della politica, aldilà del voto e della mera scelta di campo. Ci dev'essere quindi continuità, non rottura, sostanza e non forma, potenza e importanza di quella che è la massima espressione attraverso cui l'uomo ha deciso di organizzarsi e gestirsi : la politica.
Ma forse così non è da tempo e sarà difficile che ritorni ad esserlo. Perchè dal momento in cui la politica è stata contagiata e infettata da ciò che chiamiamo comunemente profitto, e che ha trasformato le USL in ASL, l'acqua pubblica in spa, le ferrovie, l'energia, e fra non molto la RAI, in società miste ( pubblico e privato ), ciò che era diritto è diventato variante del diritto, e ciò che era inviolabile è stato volgarmente violato. Gradualmente, goccia a goccia, con stratificazioni legalizzate, ciò che era diritto è diventato oggetto di scambio : ciò che ti spettava ora è soggetto a compravendita. Sta a noi, i non eletti, i rappresentati, fare in modo che torni ad essere diritto ciò che non lo è più. Cominciando, per esempio, a cacciare coloro che rappresentano se stessi, plagiati da un'elite dominante che li sceglie come consapevoli e volgari pupazzi di uno spettacolo su cui dovrebbe finalmente calare il sipario.

venerdì 4 febbraio 2011

Dopo un lungo silenzio, riprendo a scrivere sul blog. Prediligo l'azione, in questo momento, vista la situazione estremamente grave e di degrado senza precedenti. Per intanto, cerco di capire come si è giunti ad essere così poveri, intellettualmente e moralmente. Comincerò con alcuni pensieri di Marx, che tracciano lucidamente e profeticamente ciò che ora, anno 2011, dopo più di 150 anni, sembra ancora drammaticamente attuale.

La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria. Dove è giunta al potere ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvicinavano l'uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse e lo spietato pagamento in contanti. Essa ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell'esaltazione religiosa, dell'entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo borghese. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio, e in luogo delle innumerevoli franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto la sola libertà di commercio senza scrupoli. In una parola, al posto dello sfruttamento, velato da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, aperto e arido. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l'innanzi erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati. La borghesia ha strappato il velo di tenero sentimentalismo che avvolgeva i rapporti di famiglia, e li ha ridotti a un semplice rapporto di denari.

martedì 2 marzo 2010

Esordio ! La verità

Ciao, a chiunque si colleghi e legga questo mio primo post.

A cosa può servire un blog ? A tutto. O a niente.
Sono stato tentato per giorni di scrivere qualcosa. ma cosa ? Nella nostra capacità espressiva, soprattutto quando il gesto e il volto non accompagna la parola, c'è il tutto o il niente. Molti sostengono che lo scrivere semplice e conciso sia l'arma vincente. Bisogna farsi capire e non essere prolissi, bisogna che il nostro linguaggio si adatti e si plasmi a quello che è il modo di parlare corrente, e con ciò si adatti all'attuale comunicazione : veloce, breve e diretta, magari con i giovanili neologismi o con abbroviazioni imposte dalla moderna tecnologia. Si, è vero.... forse in questo modo raggiungeremo un pubblico più ampio, riusciremo a farci leggere ( con molta, molta fortuna e tanta tenacia ), e potremo anche essere, forse, punti di riferimento o di aggregazione mediatica o diretta, ma se quel linguaggio e le parole che esprime non penetrano nel profondo, non avremo fatto altro che offrire l'illusione al posto della verità ( sulla parola "verità" si sono sempre giocati i destini dell'essere umano ).
Tutti noi abbiamo paura della verità, quando questa rompe un equilibrio e scompagina un ordine che ci rasserena. Spesso ai bambini viene raccontata una "bugia", perche nasconde ciò che il loro animo ancora troppo acerbo non potrebbe capire. E nella comunicazione, e in quel linguaggio sintetico e diretto, si nasconde, spesso, l'eterna paura della verità, che non viene coperta dalla "bugia" ( ed uso l'eufemismo ), ma da un rapporto compiacente che quella comunicazione tende ad instaurare. Quando sentiamo, a proposito di certi personaggi televisivi : "Ah, quello lì mi piace, mi piace come parla e come si presenta ", oppure : "ha detto cose giuste ed è sempre educato o a modo", oppure, ancora, a proposito di personaggi più orientati verso un pubblico giovanile : "Oh! quello lì si che è un grande", vuol dire che questi personaggi hanno solleticato le nostre debolezze, quelle per le quali noi preferiamo identificarci col nostro "Io" rassicurante, piuttosto che con quello che c'incalza e ci sollecita immergendoci nel dubbio.
Ma si sà, l'uomo ha sempre cercato il percorso più breve per giungere non tanto alla felicità, quanto ad un'accettabile e irrinunciabile serenità interiore, quella per la quale la vita ci risulta meno dura e sacrificata. in cambio diamo, spesso inconsapevolmente, la nostra dignità, la nostra forza morale, la nostra capacità critica e di ribellione, diventando individui controllabili e malleabili.
A questo serve il blog, a mettersi a nudo. L'ho concepito e l'ho scelto per quella sua intrinseca libertà, per la quale non vi sono mazzette da pagare, raccomandazioni da chiederre, santi a cui votarsi o semplicemente "audience" a cui fare attenzione. E' quel soffio leggero di libertà che ti avvolge e coinvolge in ciò che di più intimo e vero possa esserci nella nostra vita : la conoscenza di sè e di ciò che ci circonda.

Ciao a tutti e a presto ! ( molto presto ! )